La mia Africa è il titolo di un famoso film, se non sbaglio, degli anni Ottanta, ma anche il titolo più adatto per riassumere l’esperienza che ho vissuto quest’estate in Kenya.
Guardando le foto da me scattate o quelle di Carlo, Giulia e Michela, i sentimenti che prevalgono sono la nostalgia, la gioia … ma anche la malinconia e la nostalgia. Nostalgia dei bei ricordi, di emozioni uniche, della spensieratezza, l’unicità di immensi posti, ma soprattutto dei volti di tutte le persone incontrate.
Ospite in terra straniera e non straniero in terra straniera. Per la prima volta non mi sono sentito “straniero”, ma il termine più corretto da utilizzare è ospite: sentirsi accolti da persone che, anche se mi chiamavano musungu (viso bianco), mi hanno sempre accolto a braccia aperte, anche se non avevano nulla da offrirmi o se il tempo trascorso con loro era solo di cinque minuti. Soprattutto quando al momento dei saluti affermavano con molta sincerità che sarò sempre il benvenuto e di tornare il prima possibile a trovarli.
Spesso i ruoli si sono invertiti: non ero io a scoprire loro, ma loro a scoprire me. Quante volte ho sentito le mani dei bambini che toccavano furtivamente i miei capelli (quei pochi che mi rimangono), così diversi dai loro, o quando facevano a gara, anche per strada, per dare la mano al bianco che forse vedevano e/o toccavano per la prima volta.
Un altro mondo.
Quando mai qui in Italia i bambini e i ragazzi ti salutano per strada quando passi con la macchina? Quante volte sono io per primo a non salutare le persone che conosco, oppure il saluto che esce dalla mia bocca è spento e freddo … Sarà una piccolezza, ma quest’usanza mi ha fin dal primo giorno sbalordito, e non solo: mi ha riempito ogni giorno di calore, faceva nascere un sorriso sul mio volto anche quando era stanco o imbronciato.
In alcuni momenti le mie preoccupazioni e i miei pensieri erano superficiali: ad esempio una sera la mia principale preoccupazione era di non sporcare i pantaloni puliti appena indossati mentre eravamo a cena alla comunità Effata. Quando sono tornato nella mia stanza e pensavo alla giornata trascorsa mi sono accorto che spesso e volentieri mi faccio tutti i giorni 200000 problemi (per non utilizzare un termine poco elegante ma più appropriato), ma qui mi accorgo che i veri problemi sono altri: avere l’acqua, garantire un pasto ai propri figli, avere qualcuno che ti accoglie e ti vuole bene, …
Compagni di viaggio.
Carlo, Giulia, Michela, don Pierluigi, Zolia, Francesco, ma non solo: don Raffaele, don Giuseppe, don Mariano, don Sandrino, Sr Alice, Sr Magdalene, Sr Felicita, Mauro, Chiara, Giosuè, Pietro e baby in arrivo, don Lorenzo, don Gabriele, don Sandro, il vescovo Luigi, don Vittorio, don Remigio, Alessia, don Luciano, Anna, Eligia,… Sono alcune delle tante persone che mi hanno accompagnato in questi giorni e che mi hanno aiutato a scoprire, ad iniziare a comprendere il significato di una parola
difficile e così difficile da comprendere: missione. Una mia definizione però non sono ancora riuscito a darla… ma si può riassumere con una frase contenuta in un brano del vangelo di Matteo (Mt 10, 16-25): “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”.
La natura.
Terra e acqua: sono due dei quattro elementi principali che lì per me hanno assunto varie sfaccettature. Della terra mi sono rimasti impressi: il suo colore rosso, le nuvole di polvere alzate dal passaggio delle auto che andavano a coprire completamente le persone che camminavano ai bordi delle strade, le “crepe” causate dall’aridità, le conseguenze della sua produttività per la sopravvivenza della popolazione locale, i tempi di “produzione” completamente diversi a quelli a cui noi siamo abituati (ad esempio il mais viene raccolto tre volte in un anno in Kenya, mentre in Italia si ottiene solo un raccolto).
L’acqua. Spesso ci dimentichiamo l’importanza di questo dono di cui noi siamo abituati ad avere in abbondanza, ma lì in Kenya ti accorgi di quanto sia preziosa e in alcune zone molto rara. I miei occhi non hanno mai visto la pioggia come un dono di Dio, anzi come una scocciatura: in quei giorni quando arrivava si poteva percepire dalla gente quanto era attesa così avrebbero potuto accumularla nelle cisterne per poterla utilizzare in casa, per lavarsi, per bagnare i campi… Con l’arrivo della pioggia la vegetazione cambia completamente colore e aspetto in breve tempo: da secca e gialla a verde e rigogliosa.
La bellezza della natura. Questo paese è composto da una vasta tipologia di paesaggi naturali che lo rendono un luogo di straordinaria bellezza visiva. La savana: la vastità del paesaggio e tutti gli animali che la percorrono dalle zebre, le giraffe, bufali, gli ippopotami, i rinoceronti, i fenicotteri, i babbuini verdi… e la fortuna di vedere due leoni e una leonessa pigri al riparo dalla calura sotto dei grandi arbusti. L’intravista Rift Valley e la vastità delle sue vallate. Ma anche la natura nostrana: le pecore e le vacche che pascolavano lungo i cigli delle strade. A proposito di quest’ultime si rimane sconvolti nel sentire che per una famigli la loro vita è più importante dei figli, essendo loro delle piccole banche ambulanti. E infine le innumerevoli varietà di colori dei fiori e delle piante che danno un tocco di allegria alla terra.
Progetti missionari. Sono rimasto sbalordito dall’importanza sociale dei progetti che i missionari stanno compiendo. L’ospedale di North Kinangop, Tabor Hill, St Martin, Talitha Kum, Effata, Ol Kalou, sono alcuni dei frutti del loro operato. I missionari possono essere definiti come dei piccoli managers, ma anche semplicemente dei papà che allevano, correggono e aiutano a crescere le loro “creature” e tutto ciò che concerne e ruota attorno (le forme di sostentamento come la fattoria, la falegnameria,…). Non voglio dimenticare le parrocchie di Weru e Mochongoi. Nella prima abbiamo partecipato alla celebrazione della consacrazione di una chiesa, mentre nella seconda siamo stati invitati ad un matrimonio per noi insolito e abbiamo partecipato alle messe domenicali dove ho riscoperto che cos’è la messa: la comunità in festa per lodare e ringraziare Dio.
Del Saint Martin dovremmo fare nostro il motto “Only through community” ovvero “solo attraverso la comunità” ove “il farsi carico assieme” dell’”altro” è la modalità per “costruire comunità” per mettere in campo quelle energie e risorse che né un singolo e né una famiglia può. È anche un metodo che mette il “povero” al centro come risorsa da ricevere e non come peso da portare. I poveri non hanno bisogno di essere salvati, sono loro che possono salvarci…
Parole. Speranza: è la parola chiave prevalsa nella mia mente all’interno della casa per disabili Ol Kalou e nel volto di tanti altri bambini: nei loro occhi si vedeva in modo molto chiaro.
Disagio: in alcuni villaggi dove ci ha condotto il vescovo Luigi. Io ho tutto, lì non hanno niente…
Gratuità e testimonianza: sono per me due parole sconosciute che in questi sedici giorni ho iniziato a conoscere.
Inglese: è giunta l’ora che io lo impari una volta per tutte.
Paura: di dimenticare tutto quello che ho vissuto e di non mettere a frutto quello che ho raccolto.
Grazie: a tutti quelli che direttamente o indirettamente mi hanno permesso di attuare e vivere quest’esperienza in Kenya, soprattutto grazie a Sandra e all’équipe di Viaggiare e Condividere che mi hanno donato gli strumenti per vivere al meglio quest’esperienza. Non voglio dimenticare di ringraziare Dio e di questo immenso Suo dono racchiuso in queste frasi.
Matteo Frizzarin