Cinquantesimo presenza Fidei donum a Nyahururu

Dal 7 all’11 Luglio si terrà presso il centro di spiritualità Tabor Hill (Nyahururu-Kenya), un incontro-convegno a cui sono invitati tutti i missionari Fidei donum di Padova rientrati in Italia, tutti i Fidei Donum presenti attualmente in Kenya, italiani o meno. Saranno invitati anche i Fidei Donum kenyani che lavorano in altre realtà. L’11 Luglio terminerà il tutto con una messa solenne e ordinazioni sacerdotali.

Il mezzo secolo di collaborazione tra i Fidei donum padovani e i sacerdoti locali ha costruito molto, in strutture e pastorale, e molto altro può far nascere nel confronto reciproco, nell’attenzione alle dinamiche in atto in una chiesa giovane, desiderosa di sperimentarsi, protesa verso una società in travolgente e talvolta acritico cambiamento.

Il presente “operativo” dei fidei donum padovani a Nyahururu, la diocesi costituita sull’altopiano del Nyandarwa e del Sud Laikipia, è fatto di quattro preti: don Mariano Dal Ponte, coordinatore del gruppo, responsabile dell’associazione Saint Martin e della comunità dell’Arca, don Sandro Borsa, amministratore dell’ospedale di North Kinangop, don Sandro Ferretto, parroco di Mochongoi e don Vittorio Grigoletto, parroco di Weru. Ad essi va aggiunta la famiglia di Fabio, Ilaria, Tommaso ed Edoardo Fanton, collegati al Saint Martin e all’Arca, e don Giacomo Basso, prete di Venezia parroco di Ol’ Moran, da sempre inserito nell’équipe padovana.

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Beatificazione di suor Irene Stefani

Suor Irene Stefani, una delle Missionarie della Consolata, è stata beatificata sabato 23 Maggio a Nyeri, in Kenya, dal cardinale Polycarpo Pengo, arcivescovo di Dar-es-Salaam. Una missionaria del primo Novecento, chiamata “madre misericordiosa” da tutti quelli che ammirarono la sua tenerezza soprattutto verso gli ammalati. Morì a 39 anni curando un uomo ammalato di peste.  Irene è stata una madre in tutti i sensi: madre spirituale e madre che nutriva anche il corpo, i bisogni del corpo. Per questo la gente l’ha chiamata ‘la madre di misericordia’, ‘la madre tutta tenera’. E ancora, di generazione in generazione, si tramanda la storia di questa grande donna della Consolata. Suor Irene non ha mai discriminato o allontanato le persone e per questo ha conquistato tanto la fiducia della gente.

Suor Irene è nata in provincia di Brescia nel 1891, battezzata col nome di Mercede, quinta di dodici figli. A 20 anni entra tra le Missionarie della Consolata, a 23 parte per il Kenya. Per i primi anni si dedica all’assistenza negli ospedali militari – strutture fatiscenti senza nulla –  dove pulisce e fascia le ferite dei portatori africani, arruolati per trasportare materiale bellico della Prima Guerra Mondiale. La guida un motto: “Dolcezza, affabilità grande, molta, molta pazienza”.

Lei non perdeva la speranza di aiutare la gente gravemente colpita e faceva di tutto per dare speranza, per curare se c’era bisogno, per dare da mangiare, per insistere nello stare loro vicino. Andava anche alla ricerca di coloro che erano già stati buttati via come morti e alle volte riusciva a recuperare persone che non erano morte e le aiutava a ricominciare a vivere.

Nel 1920, suor Irene raggiunge la missione di Ghekondi, dove si dedica all’insegnamento scolastico. Gira per le capanne, col sorriso e un rosario in mano, alla ricerca di ragazzini da invitare a scuola e così conosce e aiuta come può anche le loro mamme. Insegna alle giovani consorelle, giunte da lei per il tirocinio missionario, e le circonda di affetto e attenzioni. Poi, nel settembre 1930, mentre si trova a Nyeri per gli esercizi spirituali – lei che aveva scritto con slancio “Gesù! Se avessi mille vite le spenderei per Te” – matura il desiderio di offrire la propria vita per le missioni. La superiora le nega finché può il permesso di tornare a Ghekondi dove intanto ha preso a infuriare la peste, poi si arrende alle sue insistenze. Irene comincia ad assistere i malati, un uomo in particolare:

“Quest’uomo, da cui ha contratto la malattia, faceva di tutto per togliere suor Irene dal suo lavoro. Invece, suor Irene non si è fermata. È andata avanti a cercarlo, anche nei momenti in cui lui aveva più bisogno. Lo ha curato e curandolo ha preso questa malattia. Per questo tanta gente dice che lei non è morta per la malattia, ma è morta per amore”.

Domenica 26 ottobre 1930 è la festa di Cristo Re. Suor Irene alla Messa guida le preghiere, ma i brividi le gelano le ossa. Si mette a letto. Muore cinque giorni dopo, a 39 anni, felice di andare “in Paradiso”, come dice a chi le è accanto in lacrime. Colei che chiamano “Nyaatha”, cioè “madre misericordiosa”, realizza il sogno annotato un giorno su una pagina – “Poter dire: Io sono Irene di Gesù e meritare la risposta: Io sono Gesù di Irene” – e lascia un esempio immortale alle missionarie che oggi la venerano.

Migliaia di persone si sono riunite a Nyeri, per partecipare alla cerimonia di beatificazione di questa suora italiana che ha lavorato per molti anni nella nazione dell’Africa orientale. Il quotidiano kenyano Daily Nation ha riferito che fino a 100mila persone provenienti da tutto il mondo si sono recate a Nyeri ad assistere alla cerimonia alla Dedan Kimathi University in cui suor Irene Stefani è stata dichiarata beata. Altri milioni hanno guardato l’evento in diretta televisiva.

(Dalla Radio Vaticana)

Alcune frasi celebri:

“Non dobbiamo essere giudici di pace, ma angeli di pace”

“Amatevi e spargete il seme del Vangelo”

“O Gesù, se avessi mille vite le spenderei per Te!”

“Seminare gioia e felicità senza raccogliere lodi”

“Quando si ama veramente non si prova fatica e tutto diventa possibile”

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La Pasqua del cambiamento

Ormai stiamo vivendo in questa bellissima Terra da cinque mesi…e quella che verrà sarà la nostra prima Pasqua missionaria.

Ci soffermiamo a riflettere sul Cap.13 di Giovanni: la lavanda dei piedi. Gesù con grande umiltà e con questo gesto del tutto nuovo spiazza i discepoli che faticano a capire cosa stia facendo il loro Maestro. Il suo però non è un atto di sottomissione, mantiene la sua autorità. E’ un gesto di gloria.

E noi ci chiediamo: quando ci siamo degnati di lavare i piedi ai nostri fratelli e sorelle?

Gesù dice anche “Vi ho dato l’esempio perché come faccio io, facciate anche voi”. A tal proposito ci piace ricordare  una preghiera di Oscar Romero che ci ha accompagnato nei momenti di riflessione comunitaria al St.Martin nel mese di Febbraio “You shoud know that we no longer need to preach, because Christians preach by the example of their own life”. Da quando ci siamo sposati pensiamo che il più bell’esempio di testimonianza cristiana sia la nostra stessa vita; con le nostre scelte magari anche controcorrente, la nostra semplicità, il nostro stile di vita sobrio, i nostri comportamenti, l’educazione che vogliamo trasmettere ai figli…non siamo capaci di predicare come i grandi profeti, quello che vogliamo trasmettere lo facciamo con la nostra quotidianità e il nostro essere noi stessi.

Ci piace che i nostri colleghi del St.Martin e l’Ache Kenya vedano in noi una famiglia che si vuole bene, che dà priorità ai figli, che si rispetta e che si ama. Tutti sottolineano il fatto che non è così scontato trovare qui in Africa un padre che si occupa da solo e a tempo pieno dei figli quando la madre è occupata per lavoro.

Qui le donne si arrangiano a fare tutto, sono le vere eroine della casa! Dai figli, ai genitori anziani, dal lavoro nei campi al raccogliere la legna nel bosco…sono loro che si prendono cura di tutti gli aspetti riguardanti la famiglia. Non è raro incontrare per strada una donna piegata sotto il peso di legna, sacchi pieni di verdura, o altro.

Un altro passo del Vangelo che ci piace è quando Gesù dice “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13, 34). Una persona ci ha detto che in camera sua ha un cartellone con scritto: Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai nulla. Sii gentile. Sempre.

E noi ci chiediamo: fino a dove sono in grado di arrivare con il mio amore? Quanto i pregiudizi mi bloccano dall’amare appieno?  

 A volte ci sentiamo con Simon Pietro che per tre volte risponde a Gesù che lo ama ma che poi lo rinnega in pubblico. Non è facile vivere da cristiani, non è facile dimostrare che si può vivere da cristiani. Questo Paese è un’oasi felice e qui nessuno ti giudicherà mai se dici: “Scusa, adesso é il momento per la preghiera”. Ricordiamo bene quando eravamo a casa quanto fosse difficile vivere in libertà la propria Fede, non perché fosse motivo di vergogna, ma perché la società ti taglia fuori dai giochi se sei un credente. Abbiamo finito col pensare che le critiche vengano fatte solo per invidia; siamo sicuri che essere cristiani significa avere una marcia in più,  in fin dei conti per noi è essere “semplicemente” quello che siamo da sempre. Non farsi problemi inutili dove non ci sono, vivere con semplicità (che non significa con leggerezza) e gioire per quello che si riceve e si ha senza puntare a chissà quale mondo fatato e irreale.

Nel periodo pre-partenza ci siamo abbandonati totalmente al Padre. Esperienza che tutt’ora prosegue. Che bellezza! Sapete, in questi mesi spesso e volentieri ci siamo scontrati con il non capire. È tutto così diverso qui. E non capiremo tante cose neanche tra tre anni. Ma neanche in Italia non capivamo tutto: perché il Signore stesse chiamando proprio noi, perché perdere un lavoro sicuro, perché …… Ma questa è la bellezza dell’affidarsi! Questa è Fede! Non è pazzia, nemmeno stupidità o fuga da qualcosa. È Fede, voglia di rispondere a una Chiamata che è arrivata quanto meno ce lo aspettavamo, quando ormai pensavamo di aver trovato un equilibrio. Ma il Padre è “furbetto”, arriva, ti prende la mano, ti strattona il cuore e alla fine come puoi dire di no! Quello che Lui propone è così meraviglioso!!!

“Lasciate le cose di questo mondo e seguitemi!”.  Con questa frase del Vangelo vogliamo augurarvi una buona Pasqua di risurrezione. 

Un abbraccio a tutti, Ilaria, Fabio con Tommaso ed Edoardo Fanton

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Che cosa ci nutre? Che cosa nutre veramente la vita? La storia di Kakuo

“Questa domanda che risuona come una provocazione per me, merita una riflessione che parli non tanto di aiuti materiali, ma di incontro. Pensavo proprio a questo quando cinque giorni fa abbiamo accolto al Saint Martin Kakuo, una ragazza di un’etnia seminomade, mai andata a scuola, che a soli 14 anni ha tentato il suicidio con un prodotto per il bestiame.

Kakuo, comprata con 20 capi di bestiame da un anziano della sua comunità è stata forzata a diventarne la terza moglie. Lei ancora bambina si è trovata contro la propria volontà imprigionata in una decisone che non le apparteneva né la rispettava. Scappare col rischio di essere ripresa sarebbe significato morire, così ha preferito scappare sì, ma allo stesso tempo uccidersi. Meglio che rimanere in quella situazione. Una suora di una missione in quella zona l’ha ricevuta così in fin di vita, raccolta priva di sensi lungo la strada.

È stata subito una corsa contro il tempo. La cura del fisico, salvare la vita a Kakuo con una lavanda gastrica d’urgenza è stato fondamentale, è stata la priorità, e grazie a Dio Kakuo è ancora tra noi.

Ma subito dopo abbiamo capito che la profondità della disperazione che abita il suo cuore, la paura di essere ritrovata, il terrore del buio e l’impossibilità di dormire, avevano bisogno di molto più che un intervento medico.

È saper nutrire il cuore la vera sfida, ciò che guarisce davvero. Saper entrare con cura e delicatezza in quell’anima che sanguina, alimentare la fiducia poco a poco, creare spazio alla speranza è impegno estremamente più delicato e lungo.

Eppure è proprio in questo percorso che può avvenire l’incontro. È questo camminare a fianco che offre l’occasione di un doppio miracolo. Il miracolo di vedere la vita di Kakuo rinascere e ripartire, ma anche quello di vedere la nostra stessa vita risorgere e guarire dalle nostre inconsistenze e ferite. Kakuo come uno specchio, ci rimanda al nostro dolore, alle sofferenze che tutti ci portiamo dentro e attendono di essere guarite. È l’occasione che una ragazza adolescente ci offre, non solo di nutrire lei, ma di lasciare che, nella sua fragilità, lei nutra noi.

Nella fatica di aprire un dialogo con una ragazzina terrorizzata c’è la fatica di imparare a lasciare che qualcuno possa aprire un dialogo anche con noi. Nel cammino per far sì che una vittima di violenze si fidi di un altro, c’è il nostro cammino per imparare, a nostra volta, a fidarci di chi vive accanto. Nella bellezza di annunciare un futuro diverso per Kakuo, c’è la bellezza di udire la sua voce silenziosa con cui ci incoraggia a guardare al nostro futuro con occhi nuovi. È questo incontro che cambia anche noi e ci provoca nel lavoro che facciamo al St. Martin. È questo incontro che nutre la vita dei più deboli e la nostra allo stesso tempo.” 

(Mariano Dal Ponte, direttore del Centro Saint Martin a Nyahururu, in Kenya. Intervista realizzata per “Un attimo di pace”   

 

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Dio guarda il cuore non le apparenze

Quella domenica mattina ero a messa in cattedrale insieme ai membri dell’azione Cattolica uomini. Era la festa del tesseramento dell’associazione. Indossavo un vestito nuovo, un completo: l’uniforme dell’associazione. Sapevo di avere un aspetto diverso dal solito perché’ non avevo mai indossato un completo prima di allora. Al momento delle promesse ognuno doveva andare davanti all’altare, di fronte agli altri membri dell’associazione. Mi sono reso conto dallo sguardo delle persone che mi conoscevano che avevo un aspetto curiosamente diverso.

Poi ho visto tra la gente Mwihaki, una ragazzina con disabilità mentale. Camminava in mezzo ai banchi come al solito raccogliendo delle cose e portandole in giro. A un certo punto ha guardato avanti  ed è venuta dritta verso l’altare. Non pensavo mi potesse riconoscere a causa del mio vestito. Anche quando la incontro a casa sua, nella comunità dell’Arca, non mostra mai di riconoscermi e non mi saluta. Quindi davo per scontato che non sapesse chi ero. Sorprendentemente, Mwihaki e’ venuta direttamente verso di me e si è fatta spazio tra le persone per mettersi al mio fianco. Mi ha preso la mano, è rimasta serenamente con me mentre leggevo la preghiera della promessa e poi se n’è andata. Sono rimasto molto colpito. Pensavo che il mio abito speciale fosse una maschera che non le permettesse di riconoscermi. Ma non è stato così. Mwihaki mi ha riconosciuto, non dal vestito che indossavo, ma in qualche altro modo. Ed è rimasta con me, come per dire che la promessa di impegno a servizio della chiesa non aveva niente a che fare col mio vestito ma doveva vanire dal mio cuore.

Quando ero giovane, mio padre mi diceva che la verità di Dio si può cogliere da ciò che dice la gente intorno a me: quello che gli altri dicono di me è esattamente quello che Dio dice di me. Per questo motivo ho vissuto la mia vita cercando sempre di fare buona impressione. Il mio modo di fare, la mia disciplina, la creatività, l’impegno nel sociale hanno come obiettivo principale che gli altri abbiano stima di me, per evitare che mi rifiutino o parlino male di me. Tuttavia Dio mi chiede di non dare troppa importanza alle cose esteriori. Mi chiede di offrire il mio cuore da dove viene la misericordia, la compassione, l’amore, la pazienza, il perdono e la tolleranza. Se il pentimento viene dal mio cuore, allora è un pentimento vero, ma se fosse solo attraverso dei segni esteriori o delle azioni, potrebbe essere superficiale. 

(James Njoroge-uno dei direttori del St.Martin tratto da “Dall’Alba al Tramonto” di Febbraio 2015)

 

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Salomon

La parrocchia di Mochongoi è divisa in quattro zone. Tre di queste sono situate sull’altopiano di Nyahururu, fertili e piovose dove è possibile coltivare e se piove non è poi così dura sopravvivere. La quarta, da noi chiamata amichevolmente “chini-chini” (che tradotto sarebbe “proprio sotto”) si trova nella Rift valley, savana pura. Si riesce a coltivare la terra ogni 3-4 anni, quando l’annata è davvero piovosa.

Qui la gente vive di pastorizia. Ci vuole un’ora e mezza di macchina per raggiungerla, 30 chilometri di montagna, pendenze al 10-12 per cento.

L’elettricità è assente, come è assente la sicurezza. Da due anni ormai la zona è scenario di scorribande di un’altra tribù, guerriglieri armati fino ai denti che vengono a rubare il bestiame. I primi a scappare sono gli insegnanti e i dottori. La gente si ritrova spesso senza scuole e sanità.

In questa zona ci sono sette delle nostre 26 comunità: quando sono davvero bravo e fortunato riesco a scendere una volta ogni mese e mezzo o due. Ogni attività ecclesiale è ridotta al minimo.

Dall’inizio di quest’anno un ragazzo di nome Salomon, Salomone, non ha chiesto né oro né argento né una lunga vita, ma di poter iniziare a girare le scuole e riprendere seriamente il catechismo. Gli abbiamo regalato un “potente” mezzo di trasporto, una lussuosa mountain bike cinese e ogni giorno riesce a visitare due delle nove scuole primarie.

Risultato? È ripartito il catecumenato in questa zona dimenticata da tutti e ci sono 150 ragazzi che in agosto diventeranno ufficialmente catecumeni. Un prete da solo in una parrocchia così vasta e una sfida grande, a volte troppo grande. Dopo la partenza di don Mariano i laici hanno davvero serrato i ranghi e sono sempre più responsabili della loro casa, della loro famiglia… della loro parrocchia.

Un ragazzo di 20 anni può davvero fare la differenza. Grazie a Salomon e a tutti coloro che trovano gioia nel vivere e annunciare il vangelo, in qualsiasi periferia della storia.

don Sandro Ferretto

(tratto da articolo La Difesa del popolo – 26/10/2014)

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Buona Pasqua

“Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita perché amiamo i fratelli”

Queste semplici parole della prima lettera di Giovanni (1 Gv 3,14 ) ci aprono immediatamente al significato della Pasqua e alla verità della vita.

L’amore al fratello è la forza che rovescia la pietra della morte posta di fronte ai sepolcri della nostra esistenza per aprirci alla vita. Quella tomba deve essere vuota altrimenti ne resteremmo prigionieri, nel nostro limite estremo, la morte. Quel sepolcro deve essere spalancato, perché la vita è fuori, è altro, è l’altro.

Fare Pasqua significa per me, ringraziare quei fratelli e sorelle che a Tabor Hill e a Kinangop, al St Martin e Talitha Kum, ad Effatà e Betania, , a Mochongoi e Weru, spesso con umiltà e pazienza in tante occasioni mi hanno fatto passare dalla morte alla vita con il loro amore; e son sicuro che anche per voi vivere la Pasqua sia fare memoria di quel bene che ricevete e condividete. Il bene ricevuto e donato per quanto piccolo, c’è, come seme nel cuore e nell’esperienza di ciascuno. E ci saranno ancora altre pietre e sepolcri chiusi, altri limiti e fragilità lì a darci la possibilità di aprirci alla vita nella misura in cui saremo fratelli e sorelle.

Maria di Magdala nel giardino fuori del sepolcro non vede Gesù, ma un giardiniere. I due discepoli sulla via di Emmaus non vedono Gesù, ma un viandante. E gli altri, lungo il lago di Tiberiade, non vedono Gesù, ma forse un pescatore. E Maddalena vede Gesù, riscopre la vita, quando è chiamata per nome, quando è riconosciuta da un amore personale. E i viandanti vedono Gesù, riscoprono la vita grazie ad un pane, un amore spezzato e condiviso. E i discepoli in riva al lago vedono Gesù, riscoprono la vita quando gettano le reti da un’altra parte, e si aprono ad un amore pieno di fiducia nell’altro. Un giardiniere, un estraneo, un viandante e forse un pescatore… L’amore ci trova e ci cambia lì dove viviamo; ed è lì dove viviamo che diventiamo occasione per i fratelli e sorelle di passare dalla morte alla vita.

In queste settimane ho visto spesso nella campagna padovana che mi circonda trattori super attrezzati dove una sola persona in poche ore semina grandi distese di mais. Anche a Nyahururu e dintorni le settimane passate sono state il periodo della semina, e lì ricordo ben pochi trattori, ma più spesso e più numerosi i gruppi di persone che insieme, seminano a mano, un chicco alla volta; ogni giorno un campo diverso, il campo di ognuno tutti insieme.

Amo questa scena, perché può dirci come sia bello seminare il bene insieme, un chicco alla volta, ed è già così moltiplicato, e quanto bene riceviamo per mano di qualcuno forse senza aspettarcelo, nella semplicità e apparente insignificanza di piccoli gesti.

Passiamo dunque ogni giorno dalla morte alla vita, insieme, perché amiamo i fratelli, la domenica di Pasqua è solo e ancora una volta il primo di tutti questi giorni di resurrezione.

d. Raffaele Coccato

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Buon Natale

Matteo 1,1-16)

Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo. Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli, Giuda generò Fares e Zara da Tamar, Fares generò Esròm, Esròm generò Aram, Aram generò Aminadàb, Aminadàb generò Naassòn, Naassòn generò Salmòn, Salmòn generò Booz da Racab, Booz generò Obed da Rut, Obed generò Iesse, Iesse generò il re Davide. Davide generò Salomone da quella che era stata la moglie di Urìa, Salomone generò Roboamo, Roboamo generò Abìa, Abìa generò Asàf, Asàf generò Giòsafat, Giòsafat generò Ioram, Ioram generò Ozia, Ozia generò Ioatam, Ioatam generò Acaz, Acaz generò Ezechia, Ezechia generò Manasse, Manasse generò Amos, Amos generò Giosia, Giosia generò Ieconia e i suoi fratelli, al tempo della deportazione in Babilonia. Dopo la deportazione in Babilonia, Ieconia generò Salatiel, Salatiel generò Zorobabèle, Zorobabèle generò Abiùd, Abiùd generò Elìacim, Elìacim generò Azor, Azor generò Sadoc, Sadoc generò Achim, Achim generò Eliùd, Eliùd generò Eleàzar, Eleàzar generò Mattan, Mattan generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù chiamato Cristo.

La Buona Novella secondo l’Evangelista Matteo comincia con questa pagina, che rende in modo plastico il senso dell’Emmanuele annunciato qualche riga più avanti a Giuseppe: ‘’ Dio con noi’’…

In questa lunga lista di nomi, a volte difficili da pronunciare e perfino a prima vista ‘noiosa’ , troviamo ‘Dio con noi’, Dio nelle nostre storie e in tutta la nostra umanità.

Natale oggi per me significa vedere inquesto albero della vita e delle vite che arriva fino a Gesù, UNA GENEALOGIA DELLA GRATITUDINE, perché al posto di quei nomi ognuno di noi potrebbe mettere il volto di tante persone care che ci hanno ‘generato’ e che ancora ci donano vita. Persone, avvenimenti ed esperienze che ci hanno fatto nascere, vivere e crescere tra gioie e sofferenze, tra dubbi e speranze, persone con le quali abbiamo condiviso e condividiamo amore e vita.

Per questo vedo anche nella mia vita, in particolare oggi, una genealogia della Gratitudine, dall’inizio… fino a tutti gli anni vissuti qui in Kenya. La mia gratitudine ha il volto di tutti voi a cui scrivo per questo Natale, e di tantissimi altri che posso raggiungere solo con la memoria del cuore, ein particolare quelle persone che ho incontrato qui in questa terra d’Africa dal 1990 ad oggi. Un vero grande meraviglioso albero di vita.

Carissimi e carissime, ogni genealogia è anche geografia, ogni vita è anche un luogo dove questa si radica, cresce, soffre e porta frutto. Si potrebbe disegnare un’intera mappa delle nostre vite, facciamolo ancora una volta insieme, guardando avanti, senza timori, soprattutto per chi tratutti noi è nell’incertezza del lavoro, nella malattia e nell’affanno della vita, per scrivere nomi nuovi e nuovi orizzonti in questa storia di Dio con ognuno diNoi.

Un abbraccio, Buon Natale e Buon Anno Nuovo.

d. Raffaele

Nyahururu – Kenya

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Lettera di Natale di don Gabriele Pipinato

“Questi è mio figlio, il diletto. Ascoltatelo!”

Natale 2012

Cari amici, pace!

Con una certa emozione, scrivo questa lettera di Natale. E’ la mia ultima dall’Africa, perché tra qualche mese tornerò in Italia da dove sono partito vent’anni fa. Mi piacerebbe tanto poter tornare con lo stesso spirito con il quale sono partito allora, ma con più umiltà, per poter imparare nuovamente il linguaggio e la cultura che troverò in Italia.

In questi giorni mi  sono riletto il diario che ho scritto negli ultimi anni qui in Kenya per fare memoria del bene che ho vissuto e rivivere la gioia di tante storie e tanti volti che ho amato. Alcune pagine mi hanno molto sorpreso. Questa la scrissi il 28 settembre 1994:

“In questa notte di silenzio sento il desiderio di avvicinarmi all’essenziale. Ne sono attratto come per le mie montagne. Però in montagna, dalla cima bellissima di una vetta il mio desiderio si sposta alla prossima che già mi attrae. Invece essere vicino all’essenziale significa poter salire tutte le montagne del mondo senza andarci. Significa lavorare tra i poveri dell’Africa o in un ufficio in Italia (o non lavorare affatto perché inchiodati da una malattia) ma avendo lo stesso cuore riconciliato.  L’essenziale è ben oltre le cose che faccio. L’essenziale è essere nella tua santa volontà, mio Dio… …e grazie Gesù per questa tenerezza della notte.”

Scrissi queste poche righe appena arrivato in terra africana. Leggendole ne sono rimasto sconcertato perché quando tornerò a Padova, forse mi sarà chiesto proprio di lavorare in un ufficio e queste mie parole mi inchiodano alla loro verità, anche se temo di non esserne all’altezza.

Nel diario ho ritrovato anche il racconto del più bell’incontro della mia vita, quello con Thomas.

Un incontro brevissimo, una luce che subito si è spenta perché Thomas è morto qualche giorno dopo la mia visita a casa sua. La storia del Saint Martin e poi quelle del Talitha Kum e dell’Arca sono iniziate da quei brevi momenti vissuti assieme nel febbraio del 1997.

E’ proprio a Thomas che vorrei scrivere la mia ultima lettera.

Caro Thomas,

pace!

Torno da te alla fine di questa mia esperienza in Africa, un lungo viaggio iniziato proprio a casa tua. Di quel giorno, ricordo la tua mamma e la sua smania per le benedizioni: tutto doveva ricevere almeno uno schizzo di acqua santa, perfino gli animali del cortile. Facevo così conoscenza delle galline e delle capre di casa tua, ma non mi era consentito conoscere te. Entrai io, senza permesso, nel tugurio privo di luce dove trascorrevi i tuoi giorni. Lì ci incontrammo.

Alla tua mamma era stato insegnato che le tue disabilità fisiche e mentali erano il risultato della punizione di un Dio cattivo, per cui tu saresti stato maledetto per sempre, indegno perfino di ricevere una benedizione. Le raccontai di un altro Dio che ti chiama “beato” e non “maledetto”, che ha bisogno dell’amore delle persone più deboli, gli unici che lo capiscono perché pieni della sua stessa Grazia. “Graziati” appunto e non “disgraziati”. Ricordo le lacrime della tua mamma mentre ti battezzavo nel nome di questo Dio, Padre di tenerezza.

I cieli cupi della maledizione si aprivano finalmente alla luce della speranza e al canto di una parola partita dal fiume Giordano duemila anni fa: “Questi è mio figlio, il diletto. Ascoltatelo!”

Per Dio tu eri il suo figlio prediletto, ma chi eri per noi? E come ascoltarti?

Tornai a farti visita con i primi volontari per sederci vicino a te e ascoltare il tuo silenzio che è la scuola più alta che esiste al mondo: una scuola che riesce a tirare fuori il meglio dal cuore di ognuno.

E’ a questa scuola che abbiamo imparato a prenderci cura delle tante persone con disabilità, ferite non tanto dal loro handicap quanto dall’isolamento nel quale erano state recluse. Poi, abbiamo imparato anche a prenderci cura di altre disabilità, quelle che non si vedono perché si nascondono nei cuori feriti. Un vero cammino di liberazione. Per tutti.

Vera liberazione è stata anche per Alan. E’ stato abbandonato quando aveva solo sei anni forse a causa delle sue disabilità. La polizia lo ha messo in carcere, in attesa di trovargli un posto migliore, ma se ne sono dimenticati e Alan è rimasto dietro le sbarre per 14 anni, subendo le peggiori angherie. Adesso ne è uscito per venire a vivere con noi e lentamente si sta aprendo ad una vita nuova.

Non è facile vivere con lui, perché ha una personalità scontrosa e non sa ascoltare. Se poi si tratta di ascoltare le mie prediche, non se ne parla proprio: se gli dico che lui non è solo al mondo perché Gesù è suo fratello, Alan mi manda a quel paese perché vuole me come fratello.

Quando predico dall’altare: “Dio ti vuole bene”, lui non mi capisce, ma se mi siedo al suo fianco e gli dico: “Io ti voglio bene”, allora capisce benissimo e vedo che ne è felice.

Ecco Thomas, dopo vent’anni d’Africa non ho altro da dirti: sono felice di vivere con Alan e gli voglio bene. Lui ha preso il tuo posto nella mia vita e ti ringrazia di cuore.

Ti ringrazio anch’io: il nostro incontro è stato il più grande sacramento che ho ricevuto.

Venire a casa tua, il più bel pellegrinaggio.

Come a Betlemme ne è nato un amore.

Una vera grazia!

Quando sono arrivato in Africa ero convinto che vera grazia fosse il povero. Ora so che non è così.

Quel tugurio abitato dalla tua solitudine era solo angoscia: grazia è stato il nostro incontrarci.

L’abbandono di Alan in quel carcere era solo sofferenza: grazia è stato il nostro vivere insieme.

Perfino la grotta di Betlemme era solo miseria: non c’è nessuna grazia nemmeno in un Dio bambino, se non c’è una mamma che lo accoglie tra le sue braccia, se lo mangia di baci e sussurra al suo piccolo cuore parole piene di grazia: “Io ti voglio bene”.

Buon Natale, fr. Gabriele

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COME PUÒ’ UN POVERO ARRICCHIRCI?

Testimonianza del gruppo “Viaggiare per Condividere” in Kenya ad agosto 2012

“COME PUÒ’ UN POVERO ARRICCHIRCI?” Questa è una delle tante domande che ci siamo posti durante questa esperienza insieme; e poi ancora: “CHI E’ IL VERO POVERO?”.

In Kenya abbiamo incontrato moltissime persone; la maggior parte di loro non ha acqua per i bisogni quotidiani, né energia elettrica, spesso vivono in baracche di legno o fango, il cibo quotidiano non è sempre assicurato, l’educazione dei’figli e le cure mediche sono spese, a volte, insostenibili!!!! Sono loro i poveri????

No!!!!…..le persone con le quali abbiamo condiviso molti momenti insieme, non hanno sicuramente le nostre “sicurezze materiali”, ma hanno un grande dono: LA RICCHEZZA DEL CUORE! Sono consapevoli di avere bisogno gli uni degli altri, sanno aiutarsi a vicenda condividendo, ogni giorno, ciò’ che il Signore ha donato loro; si sostengono nei momenti difficili, nel dolore ma anche nelle gioie!!! “FARE COMUNITÀ’” non e’ un obiettivo.. ..li, in Kenya, è uno stile di vita! ! ! E ancora….sanno riconoscere nei-disadattati, nei vulnerabili, nei disabili e nei malati, il volto di Gesù’ e, grazie a questa grande apertura di cuore, riescono ad amarsi incondizionatamente, perché TUTTI FIGLI DI UN UNICO PADRE, quel Padre che è NOSTRO, di tutta l’umanità, che non ci lascia mai soli ed è sempre al nostro fianco nell’affrontare la vita e le difficoltà che incontriamo!

I “poveri” siamo noi ! ! Che siamo chiusi e ben protetti dalle mura delle nostre case, noi che non abbiamo tempo per le relazioni umane, che abbiamo tutto e ancora ci lamentiamo, noi che viviamo nella frenesia e non troviamo mai tempo per ascoltare il prossimo, che viviamo di corsa e non ci fermiamo mai ad assaporare un tramonto, a godere del sorriso di un bambino, a sentire la pioggia che cade…..

Siamo noi i poveri del mondo.. …e abbiamo bisogno di “quei poveri” che abbiamo incontrato in Kenya! Grazie a queste persone le riflessioni sono state tante: e’ sempre tempo per amare, per perdonare e accogliere, per ringraziare e condividere, per tessere relazioni… ..perché non possiamo continuare a vivere nella presunzione di bastare a noi stessi, di farcela sempre da soli! ! ! ! Non e’ questo che Dio vuole da noi….

IL SEGRETO DELLA FELICITA’ E’ “AMARE L’ALTRO”, PERCHE’ E’ UN FRATELLO, PERCHE’ E’ ATTRAVERSO L’AMORE CHE DIO CI PARLA!!!!

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